Übung Diktate – dettati
Il ciliegio è un grande albero,
compreso nella famiglia delle rosacee, ha foglie ovali, liscie,
seghettate, lucenti. I fiori sono bianchi e lungamente peduncolati e
compaiono con le foglie, riuniti in gruppi di due – quattro. Il frutto è
sferoidale, liscio, lucente, ha un nocciolo del pari tondeggiante e
liscio, con polpa talora gialla, talora rossastra. Il frutto del
ciliegio si presenta in tre tipi principali ben distinti: a polpa
tenera, a polpa consistente, a polpa acida. La pianta è poco esigente in
fatto di clima. La vediamo crescere e prosperare ovunque, meglio
comunque nei terreni di collina asciutti. Predilige le esposizioni di
tramontana e di ponente. La raccolta delle ciliegie si fa a maturazione
completa del prodotto, diversamente da quanto si pratica per le pesche,
le albicocche e le susine, le quali sono capaci di maturare anche dopo
che furono staccate dalla pianta. La vite ha i fiori
disposti in pannocchia composta, ossia abbondantemente ramificata: essi
hanno cinque stami ed un pistillo. La corolla non esiste nel fiore nel
momento della sua schiusura, perché i petali, saldati assieme per le
punte, si staccano dal ricettacolo e cadono in forma di cappuccetto. Il limone
ha foglie alterne glabre, coriacee, di forma elittica, penninervie,
persistenti nella maggior parte dei casi, picciolate. I fiori sono
bianchi, solitari, oppure in piccolo numero all’ascella delle foglie.
Hanno calice con cinque sepali, corolla con cinque petali bianchi,
rossicci all’infuori, numerosi stami e un solo pistillo. Il frutto è
ovoideo, giallo pallido, ha una buccia consistente, glandulosa, ed è
diviso in tante caselle, contenenti ciascuna diversi semi, avvolti in
una polpa vescicolare succosa.
Storia d’Italia…
Nerone
Agrippina
era stata certamente una donna nefasta. Ma gli ultimi episodi della sua
vita sono di vera matrona dell’antica Roma. Essa non esitò a mettersi
risolutamente contro suo figlio, quando costui venne a chiederle il
consenso al divorzio da Ottavia. Tacito dice ch’essa giunse perfino a
offrirglisi. Nerone,
sebbene l’avesse confinata in una villa, aveva ancora paura di lei. Ma
altrettanta paura aveva di Poppea, che gli si rifiutava schernendolo per
questo suo timor filiale. Alla fine essa riuscì a fargli credere che
Agrippina congiurava contro di lui, che, non osando ucciderla, tentò di
farla morire, una volta avvelendandola, e un’altra facendola cadere nel
fiume. Agrippina se l’aspettava. Forse da qualche suo servitore di
fiducia lasciato a palazzo era informata di ciò che le
preparavano, e cercò di salvarsi la prima volta con una medicina che
risolse l’avvelenamento in una colica, la seconda nuotando. Le guardie
di Nerone dovettero fare altrettanto per inseguirla sull’altra sponda. E
ci domandiamo quali dovettero essere i sentimenti e i pensieri di
questa donna nel vedersi incalzata dai sicari di un figlio, cui aveva
sacrificato tutta la sua vita. Ma non li mostrò, quando fu da essi
raggiunta. Disse semplicemente: “Colpite qui”, e indicò il grembo da cui
Nerone era nato. Costui, quando gli portarono il corpo nudo di sua
madre morta, osservò soltanto: “Toh, non mi ero mai accorto di aver
avuto una mamma così bella”. E forse l’unica cosa che rimpianse fu di
non essersela presa quando lei gli si era offerta. Come
già per Caligola, non abbiamo altra ipotesi che la follia per spiegare
simili reazioni. Forse nel sangue dei Claudi c’era un male ereditario,
che dava al cervello. La
storia assicura che Seneca in questo orrendo delitto non ebbe parte. Ma
essa ci obbliga a costatare anche ch’egli lo accettò, rimanendo al
fianco dell’imperatore. Sperava forse di trattenerlo sulla china della
perdizione? Quella speranza, se la covò, fu presto delusa. Nerone
respinse i suoi consigli quando egli cercò di fargli capire che ad un
imperatore non si addiceva giostrare nel circo come auriga, ed esibirsi
in teatro come tenore. Anzi, per mostrare quanto poco ormai teneva in
considerazione il suo maestro, ordinò ai senatori di misurarsi con lui
in quelle prove ginnastiche e musicali, dicendo che questa era la
tradizione greca e che la tradizione greca era migliore di quella
romana. La vera ragione per cui Seneca perse il posto fu che criticò le
poesie del suo padrone. Senza più freni, Nerone precipitava. Il ritratto
fisico che ci hanno lasciato di lui ce lo mostra, a venticinque anni,
con i capelli gialli annodati in treccine, l’occhio smorto, e una pancia
adiposa su due gambette rachitiche. Poppea, ormai sua moglie, ne faceva
quel che voleva. Non contenta di avergli imposto il divorzio da
Ottavia, lo spinse a mandarla al confine. E siccome i romani
disapprovarono e coprirono di fiori le sue statue, lo persuase a farla
assassinare. Ottavia morì male, impaurita, e chiedendo pietà: aveva
vent’anni appena ed era nata per fare la buona moglie di un buon marito,
non l’eroina di una tragedia. Neanche stavolta Nerone ebbe rimorsi
perché nel frattempo si era fatto consacrare dio, e gli dei non sono
obbligati a esami di coscienza.
Silla
Silla
fu eletto console l’anno 88 avanti Cristo, cioè poco dopo la fine della
rivoluzione sociale e servile che Mario aveva così sanguinosamente
represso. E la scelta, voluta dai conservatori, era un po’ fuori della
Costituzione e della consuetudine, in quanto era quella di un uomo che
non aveva seguito un regolare cursus honorum. Lucio Cornelio Silla
veniva dalla piccola e povera aristocrazia, e si era sempre mostrato
refrattario alle due grandi passioni dei suoi contemporanei: quella per
l’uniforme militare, e quella per la toga di magistrato. Aveva avuto una
giovinezza scapestrata. Non si era mai occupato di politica e di cose
serie, forse non aveva fatto nemmeno studi regolari. Però aveva letto
molto, conosceva benissimo la lingua e la letteratura greca, e aveva un
gusto raffinato in cose d’arte. Le sue qualità di fondo, ch’erano
enormi, forse non sarebbero mai emerse, se, eletto non si sa come
questore e assegnato con il grado pressappoco di capitano all’esercito
di Mario in Numidia, non si fosse trovato direttamente implicato nella
liquidazione di Giugurta. Fu lui infatti a persuadere Bocco, il re dei
mori, a consegnargli l’usurpatore. Era una brillante operazione che
coronava quelle già compiute con la spada in pugno. Silla si era
mostrato un magnifico comandante, freddo, scaltro, coraggiosissimo, e di
grande ascendente sui soldati. Aveva preso interesse alla guerra, e ci
si divertiva perché implicava il gioco e il rischio: due cose che gli
erano sempre piaciute. Perciò seguì Mario anche nelle campagne contro i
teutoni e i cimbri, contribuendo potentemente alle sue vittorie.
Cesare
Nel momento in cui Catilina cadeva,
giungeva a Roma Metello Nepote, luogotenente e avanguardia di Pompeo,
sbarcato a Brindisi di ritorno da un seguito di brillanti vittorie in
Asia minore. Aveva anticipato il viaggio per concorrere alla carica di
pretore e, una volta eletto, favorire una nuova candidatura di Pompeo al
consolato. Il primo obbiettivo lo raggiunse con i voti dei popolari, ma
si trovò accanto come collega Marco Catone, rappresentante dei più
intransigenti conservatori, i quali, dopo la vittoria su Catilina,
credevano d’essere ridiventati i padroni della situazione. Essi non
videro perché dovevano appoggiare le ambizioni di Pompeo, il quale non
avrebbe chiesto di meglio che di diventare il loro campione. Se
l’avessero scelto come tale, forse si sarebbero salvati, o per lo meno
avrebbero ritardato la propria disfatta, visto il prestigio di cui
Pompeo godeva. Ma la maggior parte erano invidiosi di lui, della sua
ricchezza, dei suoi successi, e pensarono di non averne bisogno. Ancora
una volta una sola voce in Senato fece “stecca” sul coro, appoggiando
Pompeo: quella di Cesare, anche lui pretore. L’Assemblea quel giorno fu
tumultuosa. Cesare, destituito insieme con Nepote, fu salvato dalla
folla che venne a proteggerlo e che voleva sollevarsi. Egli la calmò e
la rimandò a casa. Per la prima volta il Senato si accorse che quel
giovanotto rappresentava qualcosa e si rimangiò la destituzione. Caio
Giulio Cesare aveva allora ventisette anni e veniva, come Silla, da una
famiglia aristocratica povera che faceva risalire le sue origini ad Anco
Marzio e a Venere, ma che, dopo questi opinabili antenati, non aveva
più dato alla storia di Roma personaggi di grido. C’erano stati dei
Giuli pretori, questori, e anche consoli. Ma di ordinaria
amministrazione. La loro casa sorgeva nella Suburra, il quartiere
popolare e malfamato di Roma, e qui egli nacque chi dice nel 100, chi
nel 102 avanti Cristo. Non sappiamo nulla della sua infanzia, se non
ch’ebbe come precettore un gallo, Antonio Grifone, il quale, oltre al
latino e al greco, gl’insegnò forse qualcosa di molto utile sul
carattere dei suoi compatrioti. Pare che nella pubertà fosse afflitto da
mali di testa e attacchi di epilessia, e che la sua ambizione fosse
allora quella di diventare uno scrittore. Fu calvo molto presto e
perdeva molto tempo ogni mattina a rimediarvi, tirandosi in capelli
dalla nuca alla fronte. Svetonio dice ch’era alto, piuttosto
grassottello, di pelle chiara, d’occhi neri e vivi. Plutarco dice ch’era
magro e di mezza taglia. Fu sin da ragazzo un eccellente cavaliere, e
usava galoppare con le mani incrociate dietro la schiena. Ma camminava
molto anche a piedi, alla testa dei suoi soldati, dormiva nei carri,
mangiava sobriamente, il suo sangue si serbava sempre freddo e il suo
cervello lucido. Di viso non era bello. Sotto quel cranio pelato e un
po’ troppo massiccio, c’erano un mento quadrato e una bocca arcuata e
amara, incorniciata da due rughe dritte e profonde, e con il labbro di
sotto che sporgeva su quello di sopra. Tuttavia sposò quattro donne e ne
ebbe infinite altre come amanti. Cesare era un perfetto uomo di mondo,
galante, elegante, spregiudicato, ricco di umorismo, capace di incassare
i frizzi altrui e di rispondervi con mordente sarcasmo. Era indulgente
con i vizi degli altri, perché aveva bisogno che gli altri lo fossero
con i suoi. Una delle ragioni per cui gli aristocratici l’odiarono tanto
era ch’egli seduceva regolarmente le loro spose. Debuttò in un mondo
che non lasciava presagire nulla di buono. Finiti gli studi a sedici
anni, partì al seguito di Marco Termo che andava in Asia a farvi una
delle tante guerre. Tornò a Roma diciottenne e sposò Cossuzia, che
ripudiò e rimpiazzò con Cornelia. Silla, quando instaurò la dittatura,
gli ordinò di divorziare. Cesare rifiutò, e venne condannato a morte, la
dote di Cornelia fu confiscata. Comuni amici s’interposero, e Silla lo
lasciò andare in esilio. Quando il dittatore si fu ritirato, Cesare
tornò a Roma, ma trovandola ancora in balìa dei reazionari ripartì per
la Cilicia. Fu catturato dai pirati che chiesero un riscatto di venti
talenti (che oggi equivalgono a 20.000€); Cesare disse che gliene
avrebbe dati cinquanta e promise loro d’impiccarli una volta liberato. E
così fece. A Mileto noleggiò una flottiglia, li inseguì, li catturò e
tagliò loro la gola. Era un ragazzaccio chiacchierone, arrogante e
dissipato; quando tornò a Roma nel 68 si presentò come questore ed era
pieno di debiti – ai suoi creditori doveva venticinque milioni di
sesterzi, e Crasso al solito glieli prestò. Comprò i voti, fu eletto,
ebbe un governatorato e un commando militare in Spagna. Combatté contro i
ribelli e tornò a Roma con la fama di bravo soldato e di accorto
amministratore, il Senato gli accordò il trionfo. I conservatori
detestavano Cesare che si presentava come capo dei popolari e voleva
diventare console con l’aiuto di Pompeo e di Crasso, e in seguito
dell’alta borghesia. Fu rotta la famosa “Concordia degli ordini”
auspicata da Cicerone, cioè l’alleanza fra l’aristocrazia e l’alta
borghesia. Cesare, una volta eletto, mantenne gl’impegni assunti con gli
alleati. Propose subito la distribuzione delle terre e la ratifica
delle misure adottate da Pompeo in Oriente. Il Senato si oppose. Allora
Cesare portò i disegni di legge davanti all’Assemblea. I progetti furono
approvati. Pompeo diventò il genero di Cesare, borghesi e proletari si
strinsero in un grande abbraccio, Cesare attuò le sue riforme economiche
e sociali, ch’erano quelle dei Gracchi. Clodio, un giovane
aristocratico di bella presenza, frequentava la casa di Cesare e ne
ammirava la politica e ancora più la moglie Pompea. Pompea stava per
essere processata per oltraggio al pudore e alla religione, Cesare fu
chiamato per deporre. Proclamò l’innocenza di Pompea, dalla quale aveva
divorziato, e anche di Clodio. Cesare mise in moto Crasso, che comprò i
giudici, e Clodio fu assolto. Cesare voleva un debitore alla testa del
proletariato e lo sostenne, quando Clodio si portò candidato per il
tribunato della plebe. Al momento di lasciare la carica, Cesare si era
autonominato proconsole per cinque anni della Gallia Cisalpina e
Narbonese. Chi aveva il commando delle truppe dall’Appennino in su era
praticamente il padrone della penisola, e Cesare lo voleva essere.
Faceva approvare direttamente le leggi dall’Assemblea, senza ch’egli
fosse presente, aveva imposto che tutte le discussioni venissero
registrate e pubblicate giorno per giorno, e nacque il primo giornale
che si chiamò Acta diurna, che fu affisso ai muri affinché tutti
potessero leggerlo e controllare ciò che facevano i governanti. Ora
Cesare poté allontanarsi da Roma per procurarsi ciò che gli mancava: la
Gloria militare e un esercito fedele. La Francia per i romani era solo
un nome: Gallia. Non ne conoscevano che le province meridionali, cosa ci
fosse più a nord, lo ignoravano. Cesare aveva in simpatia i galli,
perché uno di loro era stato il suo primo precettore, e perché erano
fratelli di sangue di quei celti del Piemonte e della Lombardia, che
costituivano le sue migliori fanterie. Le tribù di razza celtica
passavano il tempo a farsi la guerra tra loro e si suddividevano in
nobili o cavalieri con il monopolio dell’esercito, in preti o druidi con
il monopolio della religione e dell’istruzione, e nel popolo affamato e
impaurito. Cesare aveva con sè solo quattro legioni, neanche trentamila
uomini, quando quattrocentomila elvezi straripavano dalla Svizzera
sulla Gallia Narbonese, e centocinquantamila germani attraversavano il
Reno per rinforzare il loro confratello Ariovisto nelle Fiandre. La
Gallia impaurita chiese protezione a Cesare che arruolò a proprie spese
altre quattro legioni. Battuti, nonostante la loro enorme superiorità
numerica, gli Elvezi chiesero di potersi ritirare nella loro patria e
Cesare acconsentì purché accettassero il vassallaggio a Roma; i germani
furono annientati presso Ostheim, Ariovisto morì poco dopo. Cesare,
piuttosto prematuramente, annunziò a Roma che tutta la Gallia era
sottomessa. Subodorò che i conservatori gli stavano preparando qualche
brutto tiro….
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