Freitag, 31. Januar 2014

Diktate Übung Diktate


Übung Diktate – dettati

(mein Vorschlag: ein Diktiergerät oder Aufnahmegerät zum Aufnehmen des Diktates, und dann selbst verbessern)

Il ciliegio è un grande albero, compreso nella famiglia delle rosacee, ha foglie ovali, liscie, seghettate, lucenti. I fiori sono bianchi e lungamente peduncolati e compaiono con le foglie, riuniti in gruppi di due – quattro. Il frutto è sferoidale, liscio, lucente, ha un nocciolo del pari tondeggiante e liscio, con polpa talora gialla, talora rossastra. Il frutto del ciliegio si presenta in tre tipi principali ben distinti: a polpa tenera, a polpa consistente, a polpa acida. La pianta è poco esigente in fatto di clima. La vediamo crescere e prosperare ovunque, meglio comunque nei terreni di collina asciutti. Predilige le esposizioni di tramontana e di ponente. La raccolta delle ciliegie si fa a maturazione completa del prodotto, diversamente da quanto si pratica per le pesche, le albicocche e le susine, le quali sono capaci di maturare anche dopo che furono staccate dalla pianta. La vite ha i fiori disposti in pannocchia composta, ossia abbondantemente ramificata: essi hanno cinque stami ed un pistillo. La corolla non esiste nel fiore nel momento della sua schiusura, perché i petali, saldati assieme per le punte, si staccano dal ricettacolo e cadono in forma di cappuccetto. Il limone ha foglie alterne glabre, coriacee, di forma elittica, penninervie, persistenti nella maggior parte dei casi, picciolate. I fiori sono bianchi, solitari, oppure in piccolo numero all’ascella delle foglie. Hanno calice con cinque sepali, corolla con cinque petali bianchi, rossicci all’infuori, numerosi stami e un solo pistillo. Il frutto è ovoideo, giallo pallido, ha una buccia consistente, glandulosa, ed è diviso in tante caselle, contenenti ciascuna diversi semi, avvolti in una polpa vescicolare succosa.

Storia d’Italia… 
Nerone
Agrippina era stata certamente una donna nefasta. Ma gli ultimi episodi della sua vita sono di vera matrona dell’antica Roma. Essa non esitò a mettersi risolutamente contro suo figlio, quando costui venne a chiederle il consenso al divorzio da Ottavia. Tacito dice ch’essa giunse perfino a offrirglisi. Nerone, sebbene l’avesse confinata in una villa, aveva ancora paura di lei. Ma altrettanta paura aveva di Poppea, che gli si rifiutava schernendolo per questo suo timor filiale. Alla fine essa riuscì a fargli credere che Agrippina congiurava contro di lui, che, non osando ucciderla, tentò di farla morire, una volta avvelendandola, e un’altra facendola cadere nel fiume. Agrippina se l’aspettava. Forse da qualche suo servitore di fiducia lasciato a palazzo era informata di ciò che le preparavano, e cercò di salvarsi la prima volta con una medicina che risolse l’avvelenamento in una colica, la seconda nuotando. Le guardie di Nerone dovettero fare altrettanto per inseguirla sull’altra sponda. E ci domandiamo quali dovettero essere i sentimenti e i pensieri di questa donna nel vedersi incalzata dai sicari di un figlio, cui aveva sacrificato tutta la sua vita. Ma non li mostrò, quando fu da essi raggiunta. Disse semplicemente: “Colpite qui”, e indicò il grembo da cui Nerone era nato. Costui, quando gli portarono il corpo nudo di sua madre morta, osservò soltanto: “Toh, non mi ero mai accorto di aver avuto una mamma così bella”. E forse l’unica cosa che rimpianse fu di non essersela presa quando lei gli si era offerta. Come già per Caligola, non abbiamo altra ipotesi che la follia per spiegare simili reazioni. Forse nel sangue dei Claudi c’era un male ereditario, che dava al cervello. La storia assicura che Seneca in questo orrendo delitto non ebbe parte. Ma essa ci obbliga a costatare anche ch’egli lo accettò, rimanendo al fianco dell’imperatore. Sperava forse di trattenerlo sulla china della perdizione? Quella speranza, se la covò, fu presto delusa. Nerone respinse i suoi consigli quando egli cercò di fargli capire che ad un imperatore non si addiceva giostrare nel circo come auriga, ed esibirsi in teatro come tenore. Anzi, per mostrare quanto poco ormai teneva in considerazione il suo maestro, ordinò ai senatori di misurarsi con lui in quelle prove ginnastiche e musicali, dicendo che questa era la tradizione greca e che la tradizione greca era migliore di quella romana. La vera ragione per cui Seneca perse il posto fu che criticò le poesie del suo padrone. Senza più freni, Nerone precipitava. Il ritratto fisico che ci hanno lasciato di lui ce lo mostra, a venticinque anni, con i capelli gialli annodati in treccine, l’occhio smorto, e una pancia adiposa su due gambette rachitiche. Poppea, ormai sua moglie, ne faceva quel che voleva. Non contenta di avergli imposto il divorzio da Ottavia, lo spinse a mandarla al confine. E siccome i romani disapprovarono e coprirono di fiori le sue statue, lo persuase a farla assassinare. Ottavia morì male, impaurita, e chiedendo pietà: aveva vent’anni appena ed era nata per fare la buona moglie di un buon marito, non l’eroina di una tragedia. Neanche stavolta Nerone ebbe rimorsi perché nel frattempo si era fatto consacrare dio, e gli dei non sono obbligati a esami di coscienza.
Silla
Silla fu eletto console l’anno 88 avanti Cristo, cioè poco dopo la fine della rivoluzione sociale e servile che Mario aveva così sanguinosamente represso. E la scelta, voluta dai conservatori, era un po’ fuori della Costituzione e della consuetudine, in quanto era quella di un uomo che non aveva seguito un regolare cursus honorum. Lucio Cornelio Silla veniva dalla piccola e povera aristocrazia, e si era sempre mostrato refrattario alle due grandi passioni dei suoi contemporanei: quella per l’uniforme militare, e quella per la toga di magistrato. Aveva avuto una giovinezza scapestrata. Non si era mai occupato di politica e di cose serie, forse non aveva fatto nemmeno studi regolari. Però aveva letto molto, conosceva benissimo la lingua e la letteratura greca, e aveva un gusto raffinato in cose d’arte. Le sue qualità di fondo, ch’erano enormi, forse non sarebbero mai emerse, se, eletto non si sa come questore e assegnato con il grado pressappoco di capitano all’esercito di Mario in Numidia, non si fosse trovato direttamente implicato nella liquidazione di Giugurta. Fu lui infatti a persuadere Bocco, il re dei mori, a consegnargli l’usurpatore. Era una brillante operazione che coronava quelle già compiute con la spada in pugno. Silla si era mostrato un magnifico comandante, freddo, scaltro, coraggiosissimo, e di grande ascendente sui soldati. Aveva preso interesse alla guerra, e ci si divertiva perché implicava il gioco e il rischio: due cose che gli erano sempre piaciute. Perciò seguì Mario anche nelle campagne contro i teutoni e i cimbri, contribuendo potentemente alle sue vittorie.
Cesare
Nel momento in cui Catilina cadeva, giungeva a Roma Metello Nepote, luogotenente e avanguardia di Pompeo, sbarcato a Brindisi di ritorno da un seguito di brillanti vittorie in Asia minore. Aveva anticipato il viaggio per concorrere alla carica di pretore e, una volta eletto, favorire una nuova candidatura di Pompeo al consolato. Il primo obbiettivo lo raggiunse con i voti dei popolari, ma si trovò accanto come collega Marco Catone, rappresentante dei più intransigenti conservatori, i quali, dopo la vittoria su Catilina, credevano d’essere ridiventati i padroni della situazione. Essi non videro perché dovevano appoggiare le ambizioni di Pompeo, il quale non avrebbe chiesto di meglio che di diventare il loro campione. Se l’avessero scelto come tale, forse si sarebbero salvati, o per lo meno avrebbero ritardato la propria disfatta, visto il prestigio di cui Pompeo godeva. Ma la maggior parte erano invidiosi di lui, della sua ricchezza, dei suoi successi, e pensarono di non averne bisogno. Ancora una volta una sola voce in Senato fece “stecca” sul coro, appoggiando Pompeo: quella di Cesare, anche lui pretore. L’Assemblea quel giorno fu tumultuosa. Cesare, destituito insieme con Nepote, fu salvato dalla folla che venne a proteggerlo e che voleva sollevarsi. Egli la calmò e la rimandò a casa. Per la prima volta il Senato si accorse che quel giovanotto rappresentava qualcosa e si rimangiò la destituzione. Caio Giulio Cesare aveva allora ventisette anni e veniva, come Silla, da una famiglia aristocratica povera che faceva risalire le sue origini ad Anco Marzio e a Venere, ma che, dopo questi opinabili antenati, non aveva più dato alla storia di Roma personaggi di grido. C’erano stati dei Giuli pretori, questori, e anche consoli. Ma di ordinaria amministrazione. La loro casa sorgeva nella Suburra, il quartiere popolare e malfamato di Roma, e qui egli nacque chi dice nel 100, chi nel 102 avanti Cristo. Non sappiamo nulla della sua infanzia, se non ch’ebbe come precettore un gallo, Antonio Grifone, il quale, oltre al latino e al greco, gl’insegnò forse qualcosa di molto utile sul carattere dei suoi compatrioti. Pare che nella pubertà fosse afflitto da mali di testa e attacchi di epilessia, e che la sua ambizione fosse allora quella di diventare uno scrittore. Fu calvo molto presto e perdeva molto tempo ogni mattina a rimediarvi, tirandosi in capelli dalla nuca alla fronte. Svetonio dice ch’era alto, piuttosto grassottello, di pelle chiara, d’occhi neri e vivi. Plutarco dice ch’era magro e di mezza taglia. Fu sin da ragazzo un eccellente cavaliere, e usava galoppare con le mani incrociate dietro la schiena. Ma camminava molto anche a piedi, alla testa dei suoi soldati, dormiva nei carri, mangiava sobriamente, il suo sangue si serbava sempre freddo e il suo cervello lucido. Di viso non era bello. Sotto quel cranio pelato e un po’ troppo massiccio, c’erano un mento quadrato e una bocca arcuata e amara, incorniciata da due rughe dritte e profonde, e con il labbro di sotto che sporgeva su quello di sopra. Tuttavia sposò quattro donne e ne ebbe infinite altre come amanti. Cesare era un perfetto uomo di mondo, galante, elegante, spregiudicato, ricco di umorismo, capace di incassare i frizzi altrui e di rispondervi con mordente sarcasmo. Era indulgente con i vizi degli altri, perché aveva bisogno che gli altri lo fossero con i suoi. Una delle ragioni per cui gli aristocratici l’odiarono tanto era ch’egli seduceva regolarmente le loro spose. Debuttò in un mondo che non lasciava presagire nulla di buono. Finiti gli studi a sedici anni, partì al seguito di Marco Termo che andava in Asia a farvi una delle tante guerre. Tornò a Roma diciottenne e sposò Cossuzia, che ripudiò e rimpiazzò con Cornelia. Silla, quando instaurò la dittatura, gli ordinò di divorziare. Cesare rifiutò, e venne condannato a morte, la dote di Cornelia fu confiscata. Comuni amici s’interposero, e Silla lo lasciò andare in esilio. Quando il dittatore si fu ritirato, Cesare tornò a Roma, ma trovandola ancora in balìa dei reazionari ripartì per la Cilicia. Fu catturato dai pirati che chiesero un riscatto di venti talenti (che oggi equivalgono a 20.000€); Cesare disse che gliene avrebbe dati cinquanta e promise loro d’impiccarli una volta liberato. E così fece. A Mileto noleggiò una flottiglia, li inseguì, li catturò e tagliò loro la gola. Era un ragazzaccio chiacchierone, arrogante e dissipato; quando tornò a Roma nel 68 si presentò come questore ed era pieno di debiti – ai suoi creditori doveva venticinque milioni di sesterzi, e Crasso al solito glieli prestò. Comprò i voti, fu eletto, ebbe un governatorato e un commando militare in Spagna. Combatté contro i ribelli e tornò a Roma con la fama di bravo soldato e di accorto amministratore, il Senato gli accordò il trionfo. I conservatori detestavano Cesare che si presentava come capo dei popolari e voleva diventare console con l’aiuto di Pompeo e di Crasso, e in seguito dell’alta borghesia. Fu rotta la famosa “Concordia degli ordini” auspicata da Cicerone, cioè l’alleanza fra l’aristocrazia e l’alta borghesia. Cesare, una volta eletto, mantenne gl’impegni assunti con gli alleati. Propose subito la distribuzione delle terre e la ratifica delle misure adottate da Pompeo in Oriente. Il Senato si oppose. Allora Cesare portò i disegni di legge davanti all’Assemblea. I progetti furono approvati. Pompeo diventò il genero di Cesare, borghesi e proletari si strinsero in un grande abbraccio, Cesare attuò le sue riforme economiche e sociali, ch’erano quelle dei Gracchi. Clodio, un giovane aristocratico di bella presenza, frequentava la casa di Cesare e ne ammirava la politica e ancora più la moglie Pompea. Pompea stava per essere processata per oltraggio al pudore e alla religione, Cesare fu chiamato per deporre. Proclamò l’innocenza di Pompea, dalla quale aveva divorziato, e anche di Clodio. Cesare mise in moto Crasso, che comprò i giudici, e Clodio fu assolto. Cesare voleva un debitore alla testa del proletariato e lo sostenne, quando Clodio si portò candidato per il tribunato della plebe. Al momento di lasciare la carica, Cesare si era autonominato proconsole per cinque anni della Gallia Cisalpina e Narbonese. Chi aveva il commando delle truppe dall’Appennino in su era praticamente il padrone della penisola, e Cesare lo voleva essere. Faceva approvare direttamente le leggi dall’Assemblea, senza ch’egli fosse presente, aveva imposto che tutte le discussioni venissero registrate e pubblicate giorno per giorno, e nacque il primo giornale che si chiamò Acta diurna, che fu affisso ai muri affinché tutti potessero leggerlo e controllare ciò che facevano i governanti. Ora Cesare poté allontanarsi da Roma per procurarsi ciò che gli mancava: la Gloria militare e un esercito fedele. La Francia per i romani era solo un nome: Gallia. Non ne conoscevano che le province meridionali, cosa ci fosse più a nord, lo ignoravano. Cesare aveva in simpatia i galli, perché uno di loro era stato il suo primo precettore, e perché erano fratelli di sangue di quei celti del Piemonte e della Lombardia, che costituivano le sue migliori fanterie. Le tribù di razza celtica passavano il tempo a farsi la guerra tra loro e si suddividevano in nobili o cavalieri con il monopolio dell’esercito, in preti o druidi con il monopolio della religione e dell’istruzione, e nel popolo affamato e impaurito. Cesare aveva con sè solo quattro legioni, neanche trentamila uomini, quando quattrocentomila elvezi straripavano dalla Svizzera sulla Gallia Narbonese, e centocinquantamila germani attraversavano il Reno per rinforzare il loro confratello Ariovisto nelle Fiandre. La Gallia impaurita chiese protezione a Cesare che arruolò a proprie spese altre quattro legioni. Battuti, nonostante la loro enorme superiorità numerica, gli Elvezi chiesero di potersi ritirare nella loro patria e Cesare acconsentì purché accettassero il vassallaggio a Roma; i germani furono annientati presso Ostheim, Ariovisto morì poco dopo. Cesare, piuttosto prematuramente, annunziò a Roma che tutta la Gallia era sottomessa. Subodorò che i conservatori gli stavano preparando qualche brutto tiro….

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